Sul diritto di invecchiare
“Poveretto, stava così bene e all’improvviso se n’è andato senza un motivo…”. Quante volte l’abbiamo sentito dire? Poi andiamo un po’ più a fondo e ci accorgiamo che non si sta parlando di un quarantenne, ma che a mancare è stato un uomo di 80 anni, reduce in passato da due infarti, con almeno un paio di patologie croniche decennali e una rimarchevole dieta quotidiana di farmaci, senza i quali non avrebbe probabilmente superato i 70.
Niente di strano, perché centinaia di migliaia di persone sono in quella stessa condizione, ma c’è un evidente bias percettivo che porta la gente a sgranare gli occhi quando un anziano senza malattie invalidanti passa a miglior vita, magari per un malanno all’apparenza banale e dopo aver sconfitto in vita sua guai ben peggiori.
Il problema, io credo, è che ci siamo ormai abituati all’idea che l’aspettativa di vita delle persone sia aumentata vertiginosamente nel giro di pochi decenni e che superare gli 80 anni sia oggi una sorta di diritto garantito a tutti, anziché un’opportunità per lo più offerta dalla medicina e dalla farmacologia.
Ovviamente i progressi in ambito sanitario sono un bene per tutti e non c’è motivo per opporsi ad essi, ma tutti noi dovremmo prenderci del tempo per capire meglio questa e molte altre realtà che, per positive che possano essere o apparire, presentano necessariamente conseguenze e implicazioni che non dovremmo mai sottovalutare, né tanto meno ignorare.
Se pensiamo alla medicina e se, per capire meglio in cosa essa consista, analizziamo il moderno Giuramento di Ippocrate, ci accorgiamo che ogni medico giura, tra l’altro, “di perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica, il trattamento del dolore e il sollievo dalla sofferenza“.
Il testo del giuramento fa inoltre riferimento alla “dignità e libertà della persona“, alla “tutela della salute“, alla “cura del malato“, all’impegno a non praticare accanimento terapeutico e a quello di “prestare soccorso nei casi d’urgenza“; infine all’etica, alla deontologia professionale, al rapporto fiduciario con i pazienti (FONTE: Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri).
Nel testo non c’è nessun riferimento a quello che sembra essere un patto implicito tra la medicina e l’umanità per l’aumento dell’aspettativa di vita e per la sconfitta delle malattie, della vecchiaia e dei limiti correlati alla nostra natura.
Noi esseri umani siamo, infatti, creature fragili, finite, mortali. La sofferenza e la malattia sono parte della nostra stessa natura e non rappresentano soltanto sfortunati incidenti di percorso da contrastare. Farlo è assolutamente lecito ed è parte integrante del progresso della civiltà, ma se non capiamo la profonda differenza tra curare le persone e aumentare la loro aspettativa di vita, il rischio che corriamo è quello di sposare appieno il transumanesimo e le sue teorie, allontanandoci dalla nostra natura e spingendoci verso scenari incerti e spesso totalmente distopici.
Non è dunque lecito desiderare di vivere più a lungo? Non lo è cercare di allontanare il più possibile la vecchiaia, le malattie e contrastare fatica, dolore fisico e tutti i possibili ostacoli ad una vita piena e soddisfacente? Lo è certamente, ma la linea di demarcazione tra ciò che dobbiamo e ciò che non dovremmo desiderare e perseguire è nella consapevolezza, che dobbiamo necessariamente maturare.
Senza di essa il rischio di cedere alla tentazione di ibridarci con le macchine e con la tecnologia e di abbandonare quanto prima i nostri corpi limitati e mortali, per trasferire la nostra coscienza dentro “gusci” estremamente meno fragili e molto più performanti è concreto e molto più prossimo di quanto non immaginiamo. Se vi capita guardate il film del 2017 “Ghost in the Shell”, diretto da Rupert Sanders e tratto dall’omonimo manga di Masamune Shirow, per capire perché ho usato la parola guscio e cosa intendo per ibridazione.
Se lasciamo alla medicina e alla farmacologia l’opportunità di perseguire non soltanto la nostra salute e il nostro benessere, ma l’allontanamento (o addirittura la sconfitta) di quelli che non dovremmo considerare nostri limiti, ma parti integranti del nostro essere, finiremo per perdere ancor più la corretta percezione della nostra essenza.
Vecchiaia e morte non sono nemici da combattere e non può esistere un limite entro cui essi siano accettabili. Non è una questione di età, anche se è del tutto normale che ci sembri assurdo che si possa morire in un momento diverso dalla nostra vecchiaia. Una fase della vita che nel corso dei millenni e dei secoli ha subito variazioni importanti, anche a causa di epidemie, guerre, carestie, ma che oggi ci sembra poter essere spostata soltanto in avanti.
Prevenzione, cura, farmaci, stili di vita e opportunità economiche stanno aiutando molti a restare giovani fino ad età in cui un tempo era un già lusso arrivare, ma questo progresso ha sfaccettature e conseguenze che dobbiamo necessariamente imparare a conoscere.
Le decine di ultrasessantenni che in tv dimostrano 10 o 20 anni in meno sono frutto di espedienti scenografici (trucco, luci, inquadrature), farmacologici, chirurgici e dei loro stili di vita, ma la percezione che questa magia sia realtà e che tutti abbiano il diritto di perseguirla sta portando molti a non porsi nessuna domanda, se non la più scontata e pericolosa: come posso farlo anch’io?
Nell’ultimo anno il dramma dell’epidemia di COVID-19 è intervenuto ad abbassare l’aspettativa di vita di alcune aree del mondo e a risvegliare le paure di molti, generando accesi dibattiti in Rete, tra chi sostiene che “in fondo stanno morendo quasi esclusivamente persone vecchie e malate” e chi urla al cinismo e alla mancanza di rispetto verso i defunti e verso i loro cari.
Questa ennesima bagarre mette chiaramente in evidenza come, a parte le legittime rimostranze di chi ha perso per la pandemia genitori, parenti o amici (e certamente il dolore non ha età), la percezione rispetto all’aspettativa di vita sia spesso distorta o confusa.
Oggi si è ragazzi a 30 anni, uomini maturi a 50 e vecchi potenzialmente mai, infatti, perché non esiste più un parametro condiviso rispetto al superamento della soglia della maturità e all’approdo a quella che, nonostante tutto, continuiamo a chiamare terza età. Questo non sarebbe un problema, se non generasse un errore di percezione che inevitabilmente ricade su molti ambiti e contesti.
Indipendentemente da come la si pensi, tuttavia, io credo fermamente che noi tutti abbiamo il sacrosanto diritto di invecchiare e che né le aspirazioni né le paure di molti debbano interferire con questo pilastro inalienabile del nostro essere.
Onestamente non so quando mi sentirò vecchio, posto che oggi, a cinquant’anni suonati, di certo non mi sento né vorrei essere un ragazzo. Di quell’età per certi versi ho mantenuto il candore, forse addirittura l’ingenuità, ma indietro non ci tornerei. Ogni stagione della vita è degna di essere vissuta, con i suoi pregi e i suoi difetti. E possibilmente senza paure né frustrazione.
In questi anni non ho mai fatto uso di medicine, a parte i rarissimi casi in cui ciò era inevitabile, ma questo non significa che io sia contrario ai farmaci e agli innegabili benefici che essi hanno portato all’umanità. Li userò, quando sarà necessario, ma mi piacerebbe davvero che le persone si interrogassero di più su cosa significa ingerire una pillola o iniettare qualcosa nel proprio corpo.
Dovremmo chiederci, ogni volta: mi sto curando o mi sto dopando? Sto allontanando il dolore e ponendo rimedio a qualche problema di salute, oppure sto cercando di allungare la mia vita, se possibile vivendola nel modo migliore? Nessuna di queste cose è moralmente sconveniente né tanto meno illecita, ma non capire che sono due cose completamente diverse è un errore madornale, io credo: per noi stessi e per gli altri.
Foto di analogicus da Pixabay